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Caso Anniken Jørgensen, fashion blogger svedese vs H&M: dove sta la verità?

Una fashion blogger svedese denuncia il lavoro sfruttato che si cela dietro alla produzione di abiti low cost. Ecco come si difende H&M.

In questi giorni non si è parlato d’altro. Testate online e cartacee hanno riportato titoloni indignati del genere: “ecco cosa c’è dietro al marchio di abbigliamento low cost svedese H&M” (!!). I fatti narrano di una giovane fashion blogger svedese 18enne (non 17enne, come scrivono in molti), Anniken Jørgensen, che dopo aver partecipato ad un web reality, Sweatshop, ideato e prodotto da Aftenposten, ha deciso di denunciare quanto visto. Ovvero sfruttamento dei lavoratori (donne, anche incinte, bambini, anziani), condizioni igienico-sanitarie precarie, stipendi ben al di sotto dei termini previsti dalla legge locale. Sì, perché il docu-reality consisteva nel mandare in Cambogia tre dei fashion blogger svedesi più conosciuti in patria e far testare loro le condizioni precarie a cui sono costretti i lavoratori locali. Tra pianti, prese di coscienza e incredulità, i tre giovani dopo un mese sono tornati in Svezia e costretti, pare, dall’Aftenposten a non fare i nomi delle aziende che producono abiti in quelle fabbriche cambogiane. Un nome su tutti: H&M.

Ora, fin qui non c’è nulla di nuovo: oramai, loro malgrado o volutamente in mala fede, la maggior parte delle aziende delocalizzano le produzioni nel sud-est asiatico, dove è risaputo che la manodopera costa molto meno. Questo non per volere delle aziende stesse, che comunque sono tenute a vigilare sulla rettitudine dei propri fornitori, ma per questioni politiche e culturali. La novità, semmai, è che molte delle produzioni vengono ora demandate all’est europeo, dove i lavoratori sono molto più sfruttati e sottopagati dei colleghi asiatici. Pratica deplorevole, ma purtroppo, molto diffusa, a tutti i livelli: alta moda, prêt-à-porter, fast fashion. Per farsi un’idea basta consultare il report 2014 di Abiti Puliti.

Ma dicevamo del caso fashion blogger-H&M: Anniken Jørgensen ha deciso di parlare e di denunciare sul suo blog l’amaro dietro le quinte di un’industria sempre più invasiva in termini sociali e ambientali. A questo punto l’azienda low cost avrebbe chiamato in sede la giovane per un colloquio privato e per chiarire la sua posizione in merito. Fashionblog ha contattato sia Anniken Jørgensen che H&M per avere informazioni dettagliate sulla vicenda, visto che tutte le fonti attendibili sono in svedese e comprensibili solo a Filippa Lagerback, ma a oggi, la fashion blogger non ha ancora risposto. In compenso H&M ci ha girato questo comunicato stampa:

L’immagine ritratta di H&M, nel programma web-TV è imprecisa e nessuno degli stabilimenti visitati nel programma produce capi di abbigliamento per H&M. Né i produttori né le ragazze ci hanno contattato per chiedere informazioni quando hanno registrato il programma. Ma è importante che i nostri clienti e gli azionisti abbiano un corretto quadro della nostra azienda e delle responsabilità che ci prendiamo.

Abbiamo da molti anni fatto dei grandi sforzi nei paesi di produzione esistenti per migliorare le condizioni di lavoro e rafforzare i diritti dei lavoratori. H&M ha uno dei più alti standard di sostenibilità nell’industria al mondo nei confronti dei propri fornitori. È da sempre nella nostra visione aziendale che i lavoratori dell’industria tessile debbano vivere con i propri salari. Tutto ciò è evidenziato anche nel nostro Codice di Condotta.

Quando chiediamo ulteriori lumi sul caso veniamo rimandati alla sezione sustainability del sito H&M, dove, in effetti, i dati relativi ai fornitori dell’azienda sono piuttosto dettagliati e sufficientemente esaustivi. E fino a che la bella e bionda Anniken Jørgensen non ci risponde, ci dovremo accontentare di questa risposta, senza che ci sia un vero e proprio contraddittorio sulla questione (a meno che non intervenga la traduzione di Filippa Lagerback: Fil, solo tu puoi aiutarci). Quel che è certo è che H&M è una delle multinazionali fashion più attente alla moda sostenibile, sia in termini ecologici che etici. E non lo scriviamo per fare marchetta, né perché riceviamo in regalo un sacco di abiti gratis, ma solo perché, obiettivamente, H&M è una delle poche aziende che ci prova. Non sarà molto, ma almeno è un inizio. Demonizzare serve ad esorcizzare il problema? Noi crediamo di no.

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